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SANIT 2011 – ROMA EUR
17 giugno 2011
“Investire in salute mentale comunitaria: nella personalizzazione della cura orientata verso percorsi di ripresa emancipativi, superando qualunque forma di istituzionalizzazione,
nel rispetto dei diritti umani e di cittadinanza”
Relazione di Gisella Trincas Presidente Nazionale U.N.A.SA.M
Quando una persona attraversa l’esperienza della sofferenza mentale, vengono messi in discussione, e negati, dal mondo esterno, i suoi diritti costituzionali. Smette di essere persona per trasformarsi, agli occhi degli altri, in una cosa, una diagnosi, un problema di ordine sociale da tenere sotto controllo, fondamentalmente con i farmaci, i ricoveri, la possibile istituzionalizzazione, il rischio dell’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario.
La qualità della sua vita cambia, non solo a causa della “sua nuova condizione” , ma principalmente per i comportamenti e le decisioni che altri si sentono nel diritto (o nel dovere) di assumere: familiari, amici, compagni di lavoro, operatori sanitari, la società in generale.
E questo accade ovunque, a qualunque ceto sociale la persona appartenga, in qualunque parte del mondo viva.
La nostra Legge di riforma, che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici, obbligherebbe alla trasformazione delle pratiche (dalla psichiatria alla salute mentale) e dei luoghi della presa in cura (dall’ospedale al territorio, dall’esclusione all’inclusione). E’ molto chiara e contiene precise indicazioni su quali strumenti e risorse attivare per garantire il rispetto dei principi e dei diritti costituzionali, e la possibilità, per le persone che vivono una condizione di fragilità psichica, di intraprendere un percorso di cura orientato verso la guarigione.
Sappiamo che non è così, che non dappertutto è così. Lo abbiamo denunciato con forza al Convegno dello scorso anno e da quelle questioni vogliamo ripartire per aggiornare il quadro e trovare insieme le strade e le soluzioni possibili.
Certamente il nostro sistema salute mentale, è il migliore del mondo, ma le situazioni di criticità che permangono vanno affrontate e superate.
Noi riteniamo inoltre che il servizio pubblico di salute mentale vada difeso e che occorre impegnarsi con rigore e determinazione affinchè siano definitivamente abbandonate le velleitarie idee di “controriforma” delle Leggi 180 e 833, sia da parte di componenti del Parlamento, sia da parte di operatori dei servizi di salute mentale. E’ di questi giorni la notizia di una proposta di legge di iniziativa popolare denominata “181”, che propone, tra le altre indicazioni confuse e approssimative, la soppressione degli articoli della 180 inglobati nella 833.
La situazione italiana quindi presenta luci e ombre, buone pratiche e cattive pratiche, ritardi intollerabili.
Le nostre Associazioni sono impegnate, sul territorio, a rivendicare il miglioramento della qualità dei servizi di salute mentale, a sostenere i buoni servizi e diffonderne la conoscenza, ma anche a contrastare con decisione l’uso della contenzione fisica spacciata come “atto medico”, l’eccessivo uso di psicofarmaci i cui effetti collaterali possono determinare condizioni di sofferenza aggiuntiva e effetti devastanti sia fisici che psichici, l’abbandono dei casi più “faticosi” e qualunque violazione della dignità e della libertà della persona umana.
E’ questione questa che riguarda, in Italia, migliaia di persone che da lungo tempo vivono una condizione di pesante e inaccettabile sofferenza, e di giovani che rischiano di intraprendere la carriera della “cronicizzazione” e che, invece, avrebbero il diritto di trovare risposta e accoglienza nella comunità di appartenenza, nei propri contesti di vita, con il sostegno di servizi di altissima qualità, con operatori che sappiano esprimere elevati livelli di sensibilità professionale e umanità.
Noi sappiamo che esistono servizi e operatori con queste caratteristiche, conosciamo questi servizi, alcuni di noi li frequentano, tante famiglie hanno preso la decisione di trasferirsi o pensano di farlo (cambiando lavoro e abbandonando tutto) con la speranza di poter garantire, in questi luoghi, ai loro figli, cure adeguate e la possibilità di farcela.
Ma noi possiamo sopportare questo? Possiamo sopportare che in Italia il destino delle persone debba dipendere dall’organizzazione (o disorganizzazione) dei servizi sanitari e sociali? Dalla realizzazione o meno di adeguate politiche sanitarie e sociali? Dall’Assessore di turno, dalla capacità manageriale di un Direttore Generale e dalla sua disponibilità di porre la salute mentale tra le questioni prioritarie a cui prestare attenzione e destinare risorse?
O invece dovremmo batterci perché la possibilità di ripresa venga garantita a tutti, per quanto ognuno possa recuperare, per quanto ognuno possa ritrovare la sua strada, il suo benessere, la sua guarigione!
L’art.1 della Legge di Riforma Sanitaria Italiana n°833, stabilisce che “la tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana” e affida al servizio sanitario nazionale il compito di provvedere al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione.
Non può essere, quindi, ulteriormente tollerato che una Legge dello Stato venga disattesa, con conseguenze disastrose. Ed è a causa della “disattenzione” governativa, e quindi della mancata “vigilanza”, che in tante Regioni manca una programmazione globale che investa l’intero territorio e garantisca una equa distribuzione delle risorse. Una programmazione che, nel riconoscimento della validità del modello Dipartimentale, metta tutte le Aziende Sanitarie Locali nelle condizioni di offrire quella pluralità di interventi fondamentali per una buona ed efficace presa in cura. A partire dai centri di salute mentale organizzati nelle 24 ore, 7 giorni su 7 .
Anche noi dobbiamo riflettere sul nostro ruolo e sulla efficacia della nostra azione. Certo. Siamo una grande organizzazione diffusa e radicata sul territorio, ma dobbiamo essere più forti, più vigili, più competenti e avere la capacità di sviluppare azione politica con chiari obiettivi e forti consensi nella società civile.
Solo cittadini organizzati e consapevoli del loro ruolo politico e sociale possono contribuire in maniera significativa al pieno riconoscimento e alla esigibilità dei diritti di cittadinanza delle persone più fragili, alla costruzione e al rafforzamento di comunità locali solidali, al benessere sociale e al progresso civile.
Ripartiamo da noi quindi, dalle scelte che facciamo, dalle azioni che compiamo. Dall’amore che sappiamo esprimere nei confronti dei nostri cari, per tutelarli, proteggerli, guidarli, accompagnarli verso la ripresa, la guarigione possibile, senza mai abbandonarli! Non abbiamo timore di chiedere conto di ciò che ci deve essere garantito, di voler sapere come vengono utilizzate le risorse, di vigilare affinchè nessuno venga umiliato, mortificato, privato dei suoi diritti di cittadinanza. E non lasciamoci imbrogliare, né incantare, da chi non è noi!
Il diritto delle persone a partecipare al loro percorso di cura personalizzato e condiviso, con il sostegno della propria famiglia, è appunto un diritto e non un premio da ottenere se ci comportiamo bene. A me si a te no!
Così come è un diritto discutere i contenuti e i metodi della cura; nulla può essere imposto ma semmai negoziato all’interno di un rapporto di fiducia reciproca tra i nostri cari e i loro curanti.
In tanti servizi, gli operatori lavorano così: costruiscono relazioni, rapporti di fiducia, vogliono bene alle persone che si affidano a loro, costruiscono insieme percorsi di speranza, opportunità, reti di sostegno. Si può fare dappertutto? Noi pensiamo di sì. Si deve fare dappertutto! E’ necessario per preservare la salute e il benessere sociale di tutti.
E ce lo dicono anche le leggi!
Quelle leggi che, ad esempio, non giustificano le pratiche coercitive che in tanti servizi psichiatrici di diagnosi e cura resistono, nonostante la nostra opposizione. Ci troviamo in presenza di gravissime violazioni considerate da tanti medici atto sanitario! E badate che non stiamo parlando di reparti ospedalieri di 50 o 100 posti letto. Stiamo parlando di servizi che hanno 10/15 posti letto, ma anche di nuovissimi servizi aperti di recente con 6 posti letto. Come si fa ad usare sistemi di contenzione e chiudere le porte a chiave (esercitando di fatto un sequestro di persona) in un reparto dove sono accolte 6 persone? Veramente! Come si fa! Che livello di preparazione hanno questi medici e questi operatori!
Che livello di sensibilità i Direttori Generali e gli Assessori alla Sanità!
Una barbarie spacciata per atto medico. Non dimentichiamo che in questi giorni due processi si stanno svolgendo (a Cagliari e a Vallo della Lucania) per la terribile morte di Giuseppe Casu e Franco Mastrogiovanni, affidati al servizio pubblico di salute mentale, morti legati in un letto dopo giorni di agonia.
Neppure le linee guida emanate dalla Conferenza delle Regioni sul trattamento sanitario obbligatorio e il documento sulla questione della contenzione (da noi condivisi), hanno interrotto questa vergogna. Evidentemente non è sufficiente se non si attiva anche un meccanismo di controllo sulla concreta attuazione di tali indirizzi, se non si riapre il tavolo di consultazione, programmazione e verifica con il Ministero della Salute (ad esempio quella Consulta Ministeriale che da due anni non è stata più convocata).
Mi pare importante, sottolineare un passaggio della “Risoluzione per la salute mentale” approvata dal Parlamento Europeo nel 2009 “… le persone colpite da patologie mentali devono essere curate e assistite con dignità e umanità… i servizi di cura e di assistenza medica devono essere efficaci, di elevata qualità, accessibili a tutti e deve esserne assicurato il carattere universalistico; …il diritto delle persone a essere curate o a non essere curate dovrebbe essere chiaramente inteso; … tali persone dovrebbero, nella misura del possibile, partecipare alle decisioni sulle proprie cure ed essere ascoltate collettivamente per quanto riguarda i servizi;… gli effetti collaterali dei medicinali eventualmente prescritti dovrebbero essere ridotti al minimo e dovrebbero essere fornite informazioni e consigli alle persone che desiderino interrompere la cura in modo sicuro…”
Ed è inoltre fondamentale che in ogni servizio di salute mentale, e in ogni livello istituzionale ,si riconosca la “crescente capacità degli utenti, dei familiari e delle Associazioni, ad affermare autonomamente l’area dei propri bisogni e delle risposte attese” (come correttamente indicato nelle Linee Guida Ministeriali sulla Salute Mentale) e che “i Dipartimenti operino affinché siano favoriti livelli partecipativi che esprimano il raggiungimento di precisi obiettivi, come ad esempio la costruzione di un progetto terapeutico individuale, personalizzato e condiviso”.
Possiamo pensare veramente che colloqui di 10/20 minuti una volta al mese, o ogni due mesi, possano permettere la conoscenza profonda della persona che si rivolge al servizio per chiedere di essere aiutata, la conoscenza del suo contesto di vita, delle sue difficoltà a stare nelle relazioni umane. Possiamo veramente pensare che la complessità della condizione di sofferenza umana e le conseguenti difficoltà possano essere affrontate esclusivamente con la prescrizione farmacologica. Perché è questo che riceviamo da tanti, troppi, servizi di salute mentale.
Sulla questione del trattamento farmacologico e del consenso informato, vorrei soffermarmi un momento.. Tutti hanno il diritto di conoscere i rischi e i benefici del trattamento proposto e di potervi aderire volontariamente. Ma sappiamo in cosa incorrono gli utenti dei servizi quando esprimono la loro contrarietà ad assumere farmaci o il loro desiderio di interromperne l’assunzione. Riteniamo quindi che sia una questione questa da affrontare con una certa urgenza perché la dimensione del problema e le conseguenze che ne derivano lo richiedono.
Altro punto centrale della nostra riflessione (oltre al progetto personalizzato e condiviso su cui non dovrebbero più esserci differenziazioni di vedute), riguarda l’integrazione sociale. Noi pensiamo che si debbano garantire investimenti a sostegno dell’impresa sociale, che ha realizzato risultati straordinari collaborando con i servizi di salute mentale, favorendo l’inclusione sociale anche e soprattutto attraverso il lavoro, la formazione, la casa, la socialità, le relazioni affettive. Esperienze importanti che hanno consentito la ripresa di tante persone, ma sono le punte di eccellenza di un sistema a macchia di leopardo
Un altro dei punti fondamentali nel processo di ripresa, su cui tutti i servizi dovrebbero puntare, riguarda l’abitare, la casa.
Ecco, pensiamo sia necessario mettere ordine nelle tante differenti formule esistenti, privilegiando l’abitare assistito, la piccola comunità, le esperienze di convivenza. Riteniamo inoltre che vada sollecitata agli Enti locali la progettazione di edilizia residenziale pubblica per facilitare l’accesso alla casa alle persone più fragili e con minore protezione sociale ed economica. Ma come si può garantire questo e gli altri interventi di integrazione sociale, fondamentali nei percorsi di cura e di ripresa, tagliando la spesa sociale e impoverendo il territorio e le famiglie?
Riprendo brevemente i punti indicati nella Mozione approvata dalla nostra Assemblea Generale e inviata lo scorso maggio al Ministro Fazio, alla Conferenza delle Regioni e agli Assessori alla Sanità, nel tentativo di contribuire, ancora una volta, a mantenere viva l’attenzione sulle questioni di fondo:
1°) Vorremo che venisse riattivata la Commissione Ministeriale Salute Mentale chiamando al tavolo di confronto istituzionale le Associazioni dei familiari e degli utenti, le organizzazioni sanitarie e sociali, le organizzazioni sindacali, la cooperazione sociale, le associazioni di volontariato;
2°) Auspichiamo la sottoscrizione di un Protocollo di Intesa tra il Ministero della Salute e il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, Centro Collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la Ricerca e la Formazione in salute mentale per le seguenti tematiche:
a) supporto e programmazione di deistituzionalizzazione e sviluppo dei servizi di salute mentale integrati nella comunità;
b) collaborazione e partenariato nella costruzione di reti con diversi Paesi/Aree che dimostrino volontà e capacità di sviluppare servizi di comunità;
c) diffusione di approcci globali di sistema orientati alla recovery: pratiche innovative in salute mentale di comunità.
Poiché Trieste è già stata riconosciuta Centro Leader per lo sviluppo dei servizi di salute mentale comunitaria in Europa, riteniamo che l’Italia possa e debba avvalersi di tale importante collaborazione.
3°) Chiediamo un deciso impegno istituzionale che veda il necessario e definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, partendo dal lavoro di indagine compiuto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul S.S.N. e da quanto proposto dalla Campagna Nazionale “Stop Opg”. L’UNASAM oltre a sostenere fortemente la Campagna, ha deciso di promuovere una proposta di legge di iniziativa popolare per la modifica del Codice Penale e il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
Si deve procedere, senza ulteriori indugi, al definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, bloccare qualunque velleità di alcune regioni di costruire luoghi specifici per i dimessi dagli OO.PP.GG. Ci sono delle esperienze molto importanti e positive che dimostrano che si può affrontare il problema delle persone internate negli OO.PP.GG. attraverso percorsi personalizzati di reinserimento sociale. Restituendo le persone alla vita, al loro territorio, ai loro familiari. Non si possono ulteriormente sopportare le inaccettabili disumane condizioni in cui sono costrette a vivere persone fragili la cui unica colpa è quella di vivere una condizione di sofferenza mentale e di non essersi potuti difendere, a causa di una assurda legge, in un Tribunale come un qualsiasi altro cittadino a cui vengono garantiti i diritti costituzionali.
4°) Auspichiamo una decisa presa di posizione da parte del Ministero contro qualunque forma di pratica coercitiva, lesiva della dignità e della libertà delle persone, come ad esempio la contenzione fisica e farmacologica e le porte chiuse dei servizi ospedalieri, impedendo di fatto la libera circolazione delle persone in violazione dei diritti costituzionali. Queste pratiche, che resistono nel 70% degli SPDC del nostro Paese, sono ben lontane da essere superate nonostante i tanti esempi dimostrati dai servizi che aderiscono al “Club SPDC aperti no restraint” fondato nel settembre 2006;
5°) E’ necessario che le Regioni garantiscano una programmazione degli interventi in salute mentale nel rispetto dei Progetti Obiettivo Nazionali, delle Linee Guida del Ministero della Salute del 2008, del Patto d’Azione di Helsinky, delle Raccomandazioni della Comunità Europea e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità;
6°) Vorremo che venissero sollecitate le Regioni e Provincie Autonome alla promozione di politiche di salute mentale che favoriscano i percorsi di cura personalizzati attraverso i budget di salute, orientati alla recovery, agendo di concerto con gli Enti Locali per la promozione di politiche di inclusione sociale (casa, lavoro, reti sociali e relazionali).
7) Vorremo una presa di distanza dalla cosiddetta proposta di “Legge 181”, ritenendo che non sia necessaria nessuna modifica della Legge 180 e della Legge 833 ma è invece sempre più pressante non procrastinare ulteriormente l’attuazione puntuale, da parte delle Regioni, di tutte le norme sopracitate. Tale progetto, come già detto, prevede anche l’abrogazione degli articoli 33, 34 e 35 della Legge 833. Norme di garanzia queste a protezione dei diritti dei cittadini, esponendoli così all’arbitrio di politiche securitarie auspicate da forze politiche e da diversi psichiatri.
8) Siamo contrari alla mercificazione della “esperienza” maturata da familiari e utenti dei servizi di salute mentale e riteniamo che vada preservato il loro ruolo partecipativo e di collaborazione all’interno di eventuali accordi e protocolli di intesa, da stilare con le associazioni in cui operano, preservandone l’autonomia e l’indipendenza, ma anche la differente funzione. Sarebbe profondamente sbagliato, a parer nostro, mettere sullo stesso piano compiti e responsabilità contrattuali e istituzionali differenti, rischiando di creare confusioni, contrapposizioni e violazione del diritto alla privacy. Inoltre è paradossale che laddove non si riconosce ruolo e protagonismo alle associazioni dei familiari e degli utenti, si è invece disposti a riconoscerlo a singoli familiari e utenti opportunamente e unilateralmente selezionati. Le Associazioni, in base alla normativa vigente, sono tenute a rapportarsi con una pluralità di istituzioni pubbliche territoriali e a partecipare ai tavoli tecnici territoriale di salute mentale, per l’attuazione di “Protocolli attuativi” di una corretta prassi di riabilitazione psicosociale delle persone con sofferenza psichica. Programmi e verifiche devono, infatti, vedere la partecipazione riconosciuta e attiva delle Associazioni dei familiari e degli utenti come auspicato dalle stesse norme Nazionali ed Europee e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e non decisa unilateralmente dal Dipartimento di Salute Mentale.
Un’ultimo punto, riguarda la necessità di promuovere periodiche campagne di sensibilizzazione e di lotta allo stigma e ai pregiudizi, con il coinvolgimento delle scuole, dell’Università, degli Enti Locali, della società civile.
Nonostante l’istituzione della giornata nazionale della salute mentale, manca una azione pubblica di sensibilizzazione, una campagna informativa, chiamando alla partecipazione le associazioni dei familiari e degli utenti e tutto il mondo dell’associazionismo.
Cosa manca ancora! Manca lo Stato che garantisca uguali diritti e opportunità ai cittadini italiani, non sulla carta ma concretamente.