“Diritti Umani e Salute Mentale”
Trieste 19 aprile 2012
Relatore: Gisella Trincas Presidente Nazionale dell’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale (U.N.A.SA.M.)
Titolo della relazione: “Dalla lotta all’istituzione manicomiale nasce il Italia una presa di coscienza collettiva dei familiari, per il pieno riconoscimento del diritto alla salute mentale e alla cittadinanza”
Parole chiave: legge 180, diritti, partecipazione, responsabilità, cittadinanza, persone, guarigione, inclusione, servizi, società, politica
La situazione psichiatrica italiana prima della approvazione della Legge 180 è caratterizzata dalla drammatica condizione in cui versano gli ospedali psichiatrici, luoghi puzzolenti e fatiscenti in cui le persone vengono tenute in condizioni disumane, indegne di un paese minimamente civile. Franco Basaglia e i suoi collaboratori da Gorizia prima e da Trieste poi dimostrano tutta l’assurdità e l’inutilità di questa istituzione e il fallimento del suo mandato di “controllo sociale e custodia”. Le tante inchieste giornalistiche e parlamentari e le denunce di tanti operatori e familiari, inducono il partito radicale, nella primavera del 78, a raccogliere 700.000 firme per un referendum abrogativo della legge istitutiva dei manicomi. Il voto referendario è previsto per l’11 giugno ma il governo di centro sinistra presieduto da Giulio Andreotti per timore di una crisi di governo, attraverso il Ministro della Sanità Tina Anselmi, preme sulla Commissione Sanità del Senato per l’approvazione del testo di legge in discussione. Così il 13 maggio del 1978 viene approvata la Legge di Riforma Psichiatrica n°180 e dopo alcuni mesi la Legge di Riforma Sanitaria 833 che ingloba gli stessi articoli della 180.
In Italia il numero delle persone internate nei manicomi era elevatissimo: 141.308 nel 1951, 170.088 nel 1961, 178.855 nel 1971. Alternativo al manicomio non esisteva nulla e le condizioni di vita delle persone erano terribili! Il manicomio era luogo di morte e di tortura e produceva follia. Le atrocità compiute nei manicomi pubblici e privati, ad opera di medici, infermieri, suore e frati, sono innumerevoli e tante sono le prove documentali raccolte. Una di queste riguarda la vicenda giudiziaria del Prof. Coda, psichiatra dell’ospedale psichiatrico di Collegno a Torino. E’ stato condannato il 12 luglio del 1974 dal Tribunale di Torino a cinque anni di carcere per maltrattamenti nei confronti dei pazienti ricoverati, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione dalla professione medica per cinque anni. Nella sentenza i giudizi hanno scritto che le scariche elettriche a cui sottoponeva i pazienti ricoverati non avevano scopi terapeutici ma punitivi e che i trattamenti erano illegittimi, che nell’ospedale si era creata una psicosi di terrore e un regime di vita inumana e vessatoria. Nella sentenza si legge che “il comportamento dell’imputato esprime un radicale tradimento delle funzioni tipiche del medico. Il Coda ha maltrattato i pazienti rendendosi conto delle sofferenze fisiche e morali che essi pativano ingiustamente, volendo espressamente creare tali sofferenze, sapendo e volendo con esse instaurare un clima di sopraffazione fortemente vessatorio delle personalità dei soggetti passivi”. I testimoni che verranno sentiti dal Tribunale sono i ricoverati di Collegno e le loro testimonianze sono agghiaccianti. C’è da segnalare che nessun medico psichiatra ha testimoniato contro il dott. Coda e che un gruppo di infermieri hanno testimoniato a suo favore. Questo processo è stato possibile grazie all’azione di coraggiosa denuncia portata avanti dalla Associazione per la lotta contro le malattie mentali nata nel 1967 a Torino. Una delle Associazioni fondatrici dell’UNASAM.
Il mio impegno in questo campo nasce dal rifiuto di accettare per mia sorella M.Antonietta un destino di istituzionalizzazione che pareva già tracciato dalla psichiatria ufficiale nel momento in cui dichiarava che era pericolosa per sé e per gli altri. Il primo ricovero in ospedale psichiatrico avvenne nel 1974, lei aspettava una bambina e aveva 22 anni. Fu terribile per lei e per noi ed era evidente che quel luogo non avrebbe potuto aiutarla a superare una condizione di difficoltà e sofferenza che noi non eravamo in grado di comprendere.
All’epoca oltre al manicomio non esisteva assolutamente nulla e per lei i ricoveri in ospedale psichiatrico cessarono solo dopo l’approvazione della Legge 180 che imponeva uno stop anche ai ricoveri volontari al 31.12.1980. Furono anni molto difficili per noi e per tante altre famiglie, nella mia terra in Sardegna, e in gran parte del territorio italiano.
Tanti di noi non volevano il manicomio ma quel processo rivoluzionario che la Legge di Riforma indicava stentava a decollare e quindi gran parte del territorio non offriva praticamente nulla che potesse aiutare concretamente le famiglie a comprendere il significato di una “malattia” che appariva devastante e a trovare le strade per combatterla.
Ed è a partire dai primi anni 80 che in Italia si vanno costituendo le Associazioni dei familiari. Alcune decisamente contro la legge di Riforma Psichiatrica, altre a favore. Appare chiaro ad alcuni di noi familiari che è tempo di impegnarci in prima persona per costringere le istituzioni, a tutti i livelli, a rispettare fino in fondo quanto la Legge stabiliva. In primo luogo la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici, l’istituzione di servizi psichiatrici di diagnosi e cura all’interno degli ospedali generali con massimo 15 posti letto, il divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici, la creazione di una rete territoriale di servizi per la presa in cura e i percorsi riabilitativi, la creazione di strutture di appoggio all’intervento di cura e riabilitazione quali ad esempio: centri diurni, case famiglia, ospedali di giorno. Il tutto all’insegna della volontarietà e della partecipazione attiva delle persone direttamente interessate e dei loro familiari. Solo in ben determinate situazioni, con una serie di garanzie costituzionali, è possibile ricorrere a trattamenti sanitari obbligatori che comunque non devono costituire la norma.
Le Associazioni che si dichiaravano contrarie alla 180, attribuivano alla legge e non all’azione degli amministratori e della politica, la responsabilità di quanto accadeva nel momento in cui gli ospedali psichiatrici si svuotavano e le persone venivano rimandate a casa senza nessun progetto di cura e senza alcun sostegno alla famiglia.
Era evidente a tutti che alla Legge di Riforma doveva necessariamente seguire un piano nazionale e regionale di attuazione, ma nè il Parlamento né il Governo parevano interessati a ciò. Va precisato che il tentativo di “riformare” la Legge 180 non ha mai abbandonato una parte della politica italiana. Quindi il nostro impegno per la creazione della rete dei servizi territoriali andava di pari passo con la decisa difesa della Legge 180/78 e della Legge di Riforma Sanitaria n° 833/78, approvata dopo pochi mesi, che sancivano la restituzione di diritti e dignità a tutte le persone le cui vite erano attraversate dalla sofferenza mentale e distrutte dalla pesante istituzionalizzazione
Le nostre Associazioni quindi assumono, negli anni, un ruolo sempre più incisivo nel processo di chiusura degli ospedali psichiatrici e nella costruzione della rete dei servizi territoriali. Impegno caratterizzato da forte passione civile ma anche da sacrifici e pene personali perché, nonostante la Legge 180, la gran parte degli ospedali psichiatrici chiuderanno nel 1998/2000 e solo dopo tale data incominciano a liberarsi risorse umane e finanziarie da utilizzare sul territorio.
Nel 1993 tutte queste Associazioni che negli anni si sono battute per difendere i valori e i principi della Legge 180, hanno dato vita all’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale (www.unasam.it). Si sono diffuse su tutto il territorio nazionale e costituiscono con le oltre 160 Associazioni aderenti, l’Organizzazione di familiari più importante e rappresentativa d’Italia. L’UNASAM aderisce all’EUFAMI (la Federazione Europea delle Associazioni dei Familiari) e ad altre Reti Nazionali e Internazionali.
Il nostro primo grande risultato è stato il Progetto Obiettivo Nazionale Salute Mentale 96/98 che detta regole e funzioni del modello organizzativo del sistema salute mentale, ma anche la nostra partecipazione ai lavori dell’Osservatorio Nazionale presso il Ministero della Sanità per l’emanazione delle linee guida sulla chiusura degli Ospedali Psichiatrici. Il Progetto Obiettivo è ignorato per lungo tempo dalla gran parte delle Regioni.
Mi pare importante sottolineare che questo risultato storico (cioè la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici italiani) è stato possibile grazie alla introduzione nelle leggi finanziarie del 1995 e 1996 di forti penalizzazioni finanziarie (nel trasferimento delle risorse dallo Stato alle Regioni) alle regioni inadempienti, obbligandole quindi a porre in atto tutte le iniziative necessarie per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici. L’ultimo (il S.Maria della Pietà di Roma) verrà chiuso nel maggio del 2000.
Altri risultati importanti arriveranno in seguito col secondo Progetto Obiettivo Nazionale 99/2000 che specifica ulteriormente il sistema dei servizi a cui le Regioni devono uniformarsi. Ma la situazione continua ad essere in gran parte del territorio critica e i servizi fragili, nonostante in tanti luoghi le buone pratiche di salute mentale dimostrano che è possibile affrontare la complessità della sofferenza mentale restituendo diritti, speranza e possibilità, senza danneggiare, abbandonare, mortificare.
L’azione dell’UNASAM e delle Associazioni Regionali si fa quindi più incisiva sulla costruzione della rete dei servizi e sulla qualità degli interventi. Si inizia a parlare di presa in carico, riabilitazione, diritti, guarigione. Si affrontano le questioni delle piante organiche, della formazione del personale, del riconoscimento del ruolo strategico e fondamentale delle Associazioni dei familiari e degli utenti. Si parla espressamente di diritti di Cittadinanza (casa, lavoro e reddito, relazioni sociali e affettive).
Ha contribuito notevolmente alla presa di coscienza collettiva e alla crescita dei familiari impegnati nelle nostre Associazioni, il forte sostegno ricevuto dal Dipartimento di Salute Mentale di Trieste da noi riconosciuto quale punta avanzata delle buone pratiche in Italia e nel mondo.
Il Dipartimento cura la formazione dei presidenti e dei volontari delle nostre associazioni, che si tiene annualmente a Trieste (con la partecipazione di delegazioni provenienti dalle diverse regioni), ma anche nelle Sedi Regionali di molte nostre Associazioni.
Questo ha permesso alle Associazioni e ai familiari di operare con sempre maggiore competenza e consapevolezza nei propri territori, sia nei confronti delle istituzioni regionali sia nel rapporto con i servizi di salute mentale (dal sito dell’UNASAM si può accedere ai siti regionali e conoscere nello specifico l’attività svolta). L’obiettivo a cui tendiamo, attraverso la nostra azione, è il pieno riconoscimento dei diritti umani e di cittadinanza delle persone con disturbo mentale, e la tutela della salute mentale di tutti i cittadini. Lo facciamo attraverso molteplici attività che svolgiamo nei territori dove viviamo e operiamo: formazione, consulenza, sportelli informativi, laboratori culturali, attività di socializzazione, campagne di sensibilizzazione, progetti di ricerca, promozione di cooperative sociali, piccole residenze, e altro ancora.
La situazione complessiva del nostro Paese, oggi, è grave e preoccupante. In questi anni, dopo un periodo di forte ripresa dell’azione politica istituzionale a tutti i livelli, in gran parte del territorio nazionale, tanti servizi faticano a garantire livelli minimi di assistenza psichiatrica e le pratiche attuate non favoriscono la ripresa ma tendono a ri-istituzionalizzare e cronicizzare. C’è stato un crescente impoverimento delle risorse umane e finanziarie, attraverso tagli ai finanziamenti della sanità pubblica, la quasi totale eliminazione dei finanziamenti allo stato sociale, il blocco delle assunzioni. Questo ha portato anche alla ripresa delle pratiche coercitive e al ritorno della peggiore psichiatria custodialistica.
Le norme italiane prevedono che i percorsi di cura siano personalizzati e condivisi e che i trattamenti siano di norma volontari. Prevedono inoltre che i Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO) debbano costituire una “eccezione” e devono essere attuati nel rispetto dei diritti civili e della dignità della persona. Accade invece che solo in una parte dei servizi territoriali i percorsi di cura sono orientati alla ripresa, alla guarigione, sostenendo i bisogni reali delle persone (casa, reddito, integrazione sociale, relazioni affettive), andando verso i luoghi della vita delle persone. In altri l’intervento è prevalentemente ambulatoriale, centrato sul farmaco, il ricorso all’ospedalizzazione e all’istituzionalizzazione, verso la cronicizzazione.
Questo stato di grave arretramento anche culturale è stato riconosciuto nel documento di emanazione delle Linee Guida Ministeriali del 2008 alla cui stesura abbiamo fortemente collaborato. Il documento infatti esprime “… preoccupazione per alcuni segnali di difficoltà e criticità da più parti evidenziate: arretramento rispetto ai livelli di deistituzionalizzazione raggiungi, con ritorni a trattamenti obbligatori, privazione di libertà, contenzioni; differenze tra indici di attività e livelli di assistenza nei diversi sistemi regionali che configurano una disuguaglianza dei cittadini rispetto al diritto alla salute…”.
Le sollecitazioni della Conferenza delle Regioni, che ha approvato le Linee Guida, non sembrano però turbare le Regioni e le Aziende Sanitarie Locali perché registriamo forti resistenze a percorrere con decisione gli obiettivi indicati con estrema chiarezza nel documento programmatorio nazionale.
La nostra azione è rivolta alle Istituzioni Nazionali (Governo, Parlamento, Conferenza delle Regioni), e alle Istituzioni locali (Regioni, Aziende Sanitarie, Comuni, Dipartimenti di Salute Mentale). Rivendichiamo con forza il miglior utilizzo delle risorse finanziarie ma anche una Programmazione Regionale degli interventi di cura e di riabilitazione. Registriamo da una parte fasi di intensa collaborazione con le istituzioni e in altre fasi di inaccettabile immobilismo.
In questi ultimi anni abbiamo riscontrato interesse e sensibilità, a livello nazionale, solo nella Commissione Parlamentare di inchiesta sulla efficienza ed efficacia del Servizio Sanitario Nazionale, a cui abbiamo rappresentato con estrema chiarezza e semplicità lo stato delle cose sull’intero territorio nazionale, evidenziato le buone pratiche e le cattive pratiche. Quanto di importante e innovativo è stato fatto e quanto ancora c’è da fare. A questa Commissione abbiamo rappresentato anche la situazione che continua a persistere negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari dove sono internate circa 1.500 persone in condizioni terribili. Per il superamento di questi luoghi terribili si è costituito (il Comitato Nazionale Stop Opg (www.stopopg.it) a cui fanno capo molte organizzazioni compresa la nostra. La Commissione ha avviato una coraggiosa indagine parlamentare che ha mostrato al modo la vergogna e l’orrore. In questi mesi è stata approvata una norma che prevede la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro marzo del 2012. Questo è un capitolo specifico che richiederebbe un necessario approfondimento ma avendo un tempo limitato, mi preme dirvi che ci sono grandi preoccupazioni da parte di tutto il movimento che in Italia si batte per il pieno riconoscimento dei diritti umani delle persone che vivono l’esperienza della sofferenza mentale, anche se autori di reato. Noi abbiamo timore che si ripropongano luoghi che privilegiano la custodia rispetto al diritto alla cura.
Tra le maggiori criticità da noi denunciate, inoltre, vi è la questione delle pratiche coercitive attuate nella maggioranza dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (i servizi ospedalieri con non più di 16 posti letto) dove si pratica ancora la contenzione fisica (legare le persone a letto anche per giorni), dove si tengono le porte chiuse a chiave e dove si fa un uso massiccio di psicofarmaci. Vorrei sottolineare però che a fronte di servizi ospedalieri di questo livello vi sono servizi territoriali carenti, vi è tutto un sistema teorico-pratico-culturale in sofferenza. Quindi siamo in presenza di gravissime responsabilità politiche e gestionali che vanno di volta in volta individuate, denunciate e superate. Situazioni assolutamente intollerabili se si pensa che invece è possibile (come dimostrano alcune esperienze concrete italiane) gestire un servizio ospedaliero e curare le persone rispettandone la libertà e la dignità umana.
Guarire dalla “malattia mentale” è possibile ed è un diritto sancito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. La Convenzione ha lo scopo di promuovere, proteggere, assicurare il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e promuovere il rispetto della loro dignità. La Convenzione stabilisce inoltre il diritto a non essere sottoposto a torture, pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. E gli Stati devono assicurare attraverso misure legislative, amministrative, sociali, educative e di qualunque altra natura, il rispetto della Convenzione. Se non lo fanno noi abbiamo la responsabilità di agire affinchè questo sia.
Anche il Piano di Azione sulla salute mentale per l’Europa, approvata ad Helsinky nel 2005 dai Ministri dei Paesi Europei, indicava le priorità da perseguire per i successivi 10 anni:
- promuovere la consapevolezza dell’importanza del benessere mentale;
- lottare collettivamente contro lo stigma, la discriminazione e l’ineguaglianza e responsabilizzare e sostenere le persone con problemi di salute mentale e le loro famiglie, in modo che possano partecipare attivamente a questo processo;
- progettare e realizzare sistemi destinati alla salute mentale completi, integrati ed efficienti, che includano la promozione, la prevenzione, il trattamento, la riabilitazione, l’assistenza ed il recupero;
- provvedere all’esigenza di disporre di una forza lavoro competente ed efficace in tutte queste aree;
- riconoscere l’esperienza e le competenze dei pazienti e dei “carers”, come base essenziale per la pianificazione e lo sviluppo dei servizi per la salute mentale.
Noi familiari e rappresentanti delle Associazioni dei familiari ci sentiamo fortemente impegnati a mantenere alta la vigilanza e far si che le Regioni, che hanno competenza e responsabilità diretta nella prevenzione, cura e riabilitazione in salute mentale, svolgano appieno i loro compiti istituzionali. E nel rispetto delle buone norme nazionali che abbiamo, programmino gli interventi e mettano in campo le risorse umane e finanziarie necessarie alla diffusione e al mantenimento di buoni servizi di salute mentale comunitaria sulle 24 ore, orientati alla guarigione, al benessere collettivo.
Noi dobbiamo fare la nostra parte, senza pensare di delegare ad altri compiti e responsabilità che sono anche nostri in quanto familiari e cittadini di questo Paese. Partecipare quindi è dovere etico; formarsi, conoscere e diffondere le buone pratiche costituisce azione irrinunciabile.
Così come è azione irrinunciabile non abbandonare mai i nostri cari, sostenerli e difendere il loro diritto ad autodeterminarsi. Così come è nostro dovere contribuire tutti insieme alla costruzione di una società migliore in cui la giustizia sociale, la coesione e la solidarietà ne siano il fondamento.
In Italia abbiamo dimostrato che si può fare a meno dei manicomi. Dobbiamo quindi difendere quanto di importante e rivoluzionario abbiamo costruito, ma dobbiamo diffondere questa cultura e queste possibilità ovunque nel nostro paese e nel mondo. A partire dalla sempre crescente capacità delle persone che vivono l’esperienza della sofferenza mentale di rappresentare i propri bisogni e costruire reti di auto aiuto e percorsi di guarigione.
Grazie.