Conferenze Giapponesi 16/21 Novembre 2010

 Relazione di Gisella Trincas Presidente Nazionale U.N.A.SA.M

“Il Movimento Nazionale delle Associazioni dei Familiari

nel processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici in Italia

 e nella costruzione della rete di servizi comunitari

 per la tutela della salute mentale”

 

La prima volta che varcai il cancello di un Ospedale Psichiatrico avevo 22 anni ed era il 1974. Andavo da mia sorella, col cuore in gola, senza capire perché l’avessero portata in quel luogo orribile. Percorsi quel viale a piedi fino all’ultimo padiglione, quasi in cima al parco. Le volte successive entravo con la macchina fin dentro le mura di cinta del padiglione perché avevo paura. Era il luogo che mi faceva paura.

Da alcuni anni mia sorella si sentiva depressa e questa sua condizione la portava ad avere atteggiamenti conflittuali con gli altri componenti della famiglia, in particolare con mia madre. Qualche volta veniva ricoverata nel reparto di neurologia dell’Ospedale Civile per brevi periodi. Durante l’ultimo di questi ricoveri ha morso un dito ad un medico ed è scattato il ricovero in Ospedale Psichiatrico. Lei aveva solo 23 anni ed era in attesa della sua prima bambina che nasce durante il ricovero in Ospedale Psichiatrico.

L’aspetto che più mi colpiva, varcando quel cancello, era il senso di abbandono e di miseria, di tutto: dei luoghi, delle cose, delle persone. E i pochi infermieri che incontravo sembravano molto ben integrati in quell’ambiente così assurdo e brutto.

Il padiglione dove stava mia sorella aveva un ampio e lungo corridoio che dalla porta d’ingresso (chiusa a chiave) conduceva ai cameroni e a varie altre stanze. In quel corridoio le donne ricoverate andavano avanti e indietro accompagnate dal ritmo del loro lamento. Il camerone aveva un numero enorme di letti schierati lungo le due pareti laterali e l’odore che da quei letti e da quel pavimento sprigionava era insopportabile. Il bagno era in pessime condizioni igieniche e la porta non si poteva chiudere a chiave. Non c’era nessuno spazio che facesse pensare ad un luogo di cura, ma l’unica impressione che si poteva avere era di essere finiti in un luogo infernale.

Mia sorella era disperata! Non voleva stare in quel luogo, diceva di avere paura, chiedeva continuamente di essere portata via.  Veniva dimessa, e poi di nuovo ricoverata ad ogni situazione di crisi, quando in famiglia la situazione si faceva ingestibile.

Lei aveva un disturbo mentale per il quale le prescrivevano dei farmaci, ma quei farmaci non modificavano i suoi comportamenti aggressivi. E non c’era nessuno che potesse aiutare la mia famiglia a capire cosa significavano quei comportamenti e come si potevano affrontare o prevenire.

Mia sorella cessò di essere ricoverata in Ospedale Psichiatrico alla fine del 1980, due anni dopo l’approvazione in Italia della Legge di Riforma Psichiatrica, la Legge 180. Non perché era guarita, ma perché la Legge vietava i ricoveri, anche volontari, a partire dal 1981.

Quelli sono stati gli anni più duri per tutti quanti noi, perché nella città dove vivevo (ma anche in tante altre città italiane) non erano stati creati i servizi che la Legge 180 indicava.

Bisognava creare una serie di servizi alternativi all’ospedale psichiatrico che permettessero alle persone di vivere in libertà con cure e interventi adeguati ai loro bisogni.  Accadeva invece che le persone venissero dimesse senza nessun programma e le famiglie abbandonate ai loro destini di sofferenza.

Fino a quel momento non conoscevo la Legge 180 e non conoscevo Franco Basaglia, lo psichiatra che aveva ispirato la Legge di Riforma Psichiatrica e che aveva dimostrato l’inutilità e l’assurdità del Manicomio e delle sue regole devastatrici.

Io non volevo che mia sorella venisse ricoverata in Ospedale Psichiatrico ma mi rendevo conto che aveva bisogno di aiuto e che noi eravamo impotenti.

Dovevo fare qualcosa ma non sapevo cosa. Fu una giornalista che mi parlò di Basaglia e del suo movimento e delle esperienze innovative che già esistevano in altre realtà italiane. Sentii parlare per la prima volta di Trieste e iniziai a guardarmi attorno. Entrai in contatto con Maria Grazia Giannichedda Presidente della Fondazione Basaglia e con Franca Ongaro Basaglia,  moglie di Franco Basaglia.

Decisi di costituire, nel 1986, nella regione dove vivo (la Sardegna) una Associazione di Familiari e di unirmi alla lotta e all’impegno delle altre associazioni che in quegli anni si stavano costituendo in altre regioni d’Italia. Volevo una possibilità, per mia sorella M.Antonietta, di uscita da quella condizione di sofferenza e di abbandono. Volevo per lei cure adeguate ma senza segregazione, volevo che tornasse ad essere “come era prima”. Che in famiglia si ritornasse ad una condizione di normalità.

Nello stesso anno, in Italia, con Franca Basaglia, Maria Grazia Giannichedda e alcune Associazioni, diamo vita al Coordinamento Nazionale delle Associazioni dei Familiari schierate apertamente a favore della Legge 180; per la chiusura degli ospedali psichiatrici e la creazione dei servizi alternativi.

C’è stato un lungo lavoro fatto di impegno quotidiano, di sacrifici, di azioni concrete che ha portato un numero elevatissimo di familiari a mettersi insieme nella condivisione e accompagnamento di quel processo di civiltà che con la Legge 180, in Italia, si era avviato. Storie individuali e storie collettive, di donne principalmente, perché è a noi donne che la società rovescia il maggior carico assistenziale e di cura. La cura dei nostri figli, la cura dei nostri genitori quando invecchiano, la cura dei nostri familiari disabili, la cura delle persone fragili. E questo avviene quando una società non è modernamente e adeguatamente organizzata, quando non investe in cultura e servizi di qualità, quando non riconosce a tutti i cittadini pari dignità e pari opportunità.

Questo processo collettivo ha portato nel 1993 alla trasformazione del Coordinamento in una Unione Nazionale tra tutte le Associazioni dei familiari che si sono battute per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici e per la restituzione di diritti e dignità a chi vive la sofferenza mentale. Da un gruppo iniziale di 9 Associazioni, oggi, l’Organizzazione che ho l’onore di rappresentare (l’UNASAM) è costituita da 170 Associazioni competenti e combattive che operano in tutte le regioni.

L’UNASAM, si è conquistata un ruolo di primo piano in campo Nazionale contribuendo in maniera significativa al definitivo superamento di tutti gli Ospedali Psichiatrici pubblici in Italia e alla costruzione di una rete di servizi territoriali di salute mentale. Il maggior numero di ospedali sono stati chiusi tra il 1998 e il 2000 grazie ad una legge finanziaria che ha introdotto una penalizzazione per le Regioni che non avessero provveduto alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici entro una certa data.

Chiudere gli Ospedali Psichiatrici ha significato non solo liberare le persone da un destino atroce, ma restituirle alla vita, ai loro affetti, ai loro sogni e alle loro speranze decine di migliaia di persone, anche dopo 50 anni di internamento. Ha significato liberare gli operatori e liberare una quantità enorme di risorse finanziarie e reinvestirle per servizi comunitari. Servizi pensati e organizzati per cittadini liberi, cittadini con bisogni e difficoltà ma liberi.

Noi sappiamo che da un disturbo mentale si può guarire, lo dicono le tante storie di guarigione, lo dicono le comunità scientifiche, lo dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma per intraprendere un percorso di guarigione occorrono delle condizioni. La prima condizione è riconoscere la capacità e la possibilità di ciascuna persona di partecipare al suo progetto di cura e di ripresa. Noi sappiamo che a chiunque di noi, in qualunque parte del mondo, a qualunque ceto sociale apparteniamo, può capitare di vivere una esperienza di sofferenza mentale, anche molto grave. Sappiamo che oggi più di ieri questo “rischio” è maggiore perché maggiori sono le difficoltà “del vivere quotidiano”.

Oggi siamo tutti più fragili, più esposti, con meno certezze per il futuro, con un sistema sociale complesso e sempre più conflittuale.

La questione non riguarda quindi più o solo le persone internate negli ospedali psichiatrici, ma riguarda tutti i cittadini. Ed è quindi interesse di tutta la comunità che ai problemi e alle difficoltà non si risponda più con l’internamento e l’esclusione sociale.

In Italia, con la Legge di Riforma Sanitaria n°833 (che ingloba gli articoli della legge di riforma psichiatrica n°180), lo Stato riconosce e garantisce a tutti i cittadini il diritto universalistico dell’assistenza sanitaria, indipendentemente dalle loro condizioni economiche e sociali, e afferma il principio dell’eguaglianza. Si assume quindi una responsabilità piena nei confronti delle fasce più deboli. Si concretizza il principio della centralità dell’intervento preventivo sia in campo sociale che sanitario. Il diritto alla salute quale diritto a stare bene.

Lo Stato ha assunto questo impegno verso i cittadini e il Governo Centrale e i Governi regionali hanno l’obbligo di creare le  condizioni  finanziarie  ed organizzative affinché questo universale principio venga rispettato.

Compito delle nostre Associazioni quindi è vigilare affinché ai nostri cari colpiti dalla sofferenza mentale venga garantito il diritto a stare bene e a tutti i cittadini il diritto a mantenere la propria salute mentale.

La nostra esperienza, diffusa attraverso le nostre Associazioni, costituisce punto di riferimento per migliaia di familiari in difficoltà che non vogliono abbandonare i loro cari e che rivendicano interventi sanitari e sociali di qualità nel rispetto della dignità e nella libertà.

I nostri saperi oggi sono un bagaglio culturale collettivo e questo lo dobbiamo a chi per anni ci ha sostenuto, dato corrette informazioni, restituito la speranza, dimostrato che sono possibili buone pratiche nel rispetto di quel percorso pratico-teorico di grande civiltà avviato da Franco Basaglia che aveva fortemente .voluto liberare la società dal bisogno del manicomio, liberando le persone. Ed è grazie a questi esempi e ai loro forti sostegni che abbiamo avuto la capacità di andare avanti, di continuare a combattere e trasferire la stessa forza e determinazione a tanti altri familiari e a tante persone che vivono o hanno vissuto l’esperienza della sofferenza mentale.

Questo non significa che tutto va bene e che non ci sono ancora cose da cambiare e migliorare. Significa però che si può fare e quindi si deve fare. In tanti luoghi simbolo i risultati sono stati particolarmente positivi e hanno dimostrato che anche nelle situazioni più gravi, le persone che vivono la condizione della sofferenza mentale, se precocemente e correttamente prese in cura, adeguatamente sostenute, possono migliorare notevolmente o guarire, ed essere restituite alla vita sociale e lavorativa.

Da queste buone pratiche si deve partire per riconoscerle, valorizzarle e diffonderle nel resto del territorio nazionale.

Siamo quindi fortemente impegnati affinchè le Regioni, che hanno competenza primaria, programmino gli interventi e mettano in campo le risorse finanziarie necessarie.

In particolare siamo impegnati affinchè:

  • i servizi territoriali di salute mentale siano aperti 24 ore su 24 come a Trieste e in altre città Italiane;
  • a tutti sia garantito un percorso di cura personalizzato e che questo percorso sia orientato verso la ripresa e l’emancipazione sociale;
  • a tutti sia offerta l’opportunità di un lavoro e di un reddito;
  • tutti abbiano la possibilità di avere una casa e il sostegno all’abitare in piccole comunità;
  • nessuno venga escluso dalla vita sociale;
  • si sostengano le famiglie agli esordi di un disturbo mentale al fine di evitare situazioni di cronicizzazione, di abbandono, di istituzionalizzazione;
  • si proceda alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, garantendo agli autori di reato con disturbo mentale le stesse garanzie costituzionali di tutti i cittadini .

Siamo anche fortemente impegnati a combattere qualunque forma di abuso e di violazione dei diritti umani. Come ad esempio legare una persona a letto, impedirne i movimenti, tenerla chiusa a chiave in una stanza o in un reparto (come accadeva negli Ospedali Psichiatrici e ancora oggi in alcuni servizi ospedalieri). Violare il diritto al consenso informato alle proprie cure. Tutti hanno il diritto di conoscere i rischi e i benefici del trattamento che viene proposto e di potervi aderire volontariamente e con cognizione di causa. La non ricerca del consenso e quindi dell’alleanza terapeutica produce sfiducia nel trattamento e negli operatori e di conseguenza l’abbandono delle cure.

La contenzione fisica (legare una persona al letto) è espressamente considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità violazione dei diritti umani e noi vogliamo che questa pratica (che qualcuno considera atto medico) venga  espressamente proibita in qualunque servizio sanitario. Non si può accettare che degli esseri umani vengano trattati in questo modo lesivo della loro dignità e della loro libertà. Si può anche morire legati in un letto d’ospedale ed è intollerabile. Noi familiari non lo possiamo accettare..

Combattere luoghi che violano i più elementari diritti umani è nostro preciso dovere e noi lo facciamo senza alcun tentennamento perché siamo dalla parte della ragione.

Il nostro Parlamento Europeo in una Risoluzione dello scorso anno, “… ritiene che il ricorso alla forza sia controproducente, così come la somministrazione coatta di farmaci, e che qualsiasi forma di ricovero in strutture con posti letto e di somministrazione coatta di farmaci debba essere limitata nel tempo e, nella misura del possibile, essere regolarmente riveduta ed effettuata con il consenso del paziente o, in assenza di quello, in ultima istanza, con la convalida di una autorità civile … è del parere, inoltre, che vada evitata qualsiasi forma di restrizione della libertà personale, in particolar modo le contenzioni, per le quali sono necessari un monitoraggio, un controllo e una vigilanza delle istituzioni democratiche, a garanzia dei diritti della persona e per limitare eventuali abusi”.

E’ con forza quindi che poniamo la questione delle cattive pratiche in alcuni nostri servizi ospedalieri e vorremo che fossero conosciute da tutti, in tutto il mondo, e anche qui in Giappone, le positive esperienze dei servizi dove si lavora nel pieno rispetto dei diritti umani, rispettando i parametri di efficienza ed efficacia, dando risposte tempestive e adeguate alle persone.

Noi pensiamo quindi che la strada sia quella della normalità di vita, del rispetto dei diritti di cittadinanza, dell’integrazione socio-sanitaria e della co-progettazione. Occorre garantire investimenti per favorire l’inclusione sociale delle persone in carico ai servizi di salute mentale, anche e soprattutto attraverso il lavoro, la formazione, la casa, la socialità, le relazioni affettive.

Un punto fondamentale di questo processo di cura e di ripresa riguarda l’abitare, la casa.

Ed è su questo punto che riscontriamo maggiori difficoltà operative in Italia a causa della scarsità di risorse finanziarie.  Bisognerebbe favorire l’attivazione di gruppi di convivenza, di percorsi di abitare assistito, di piccole comunità, a diversa intensità di assistenza secondo il bisogno di ciascuno, migliorando la qualità della vita e le condizioni di salute di tante persone che vivono l’esperienza della sofferenza mentale. In diverse regioni si sono programmati interventi di questo tipo che danno dei buoni risultati. Mia sorella M.Antonietta vive in una di queste case normali che la mia Associazione, in Sardegna, ha aperto 15 anni fa. Vive con altre sette persone e con operatori che li aiutano e li sostengono 24 ore al giorno. Da allora la sua vita ha ripreso a scorrere in una dimensione più regolare. Non ci sono state più crisi e ricoveri in servizi ospedalieri psichiatrici. I suoi rapporti con le persone sono migliorati, prende dei farmaci in misura adeguata ed è regolarmente seguita dal centro di salute mentale per visite di controllo e monitoraggio della terapia. Se vi è il tempo mi piacerebbe mostrarvi il video di questa esperienza.

In questi 25 anni di impegno mio e delle associazioni che rappresento la realtà italiana è molto cambiata e siamo cambiati anche noi. Abbiamo assunto una consapevolezza e una capacità di comprendere la sofferenza dell’altro che 40 anni fa mi sembrava impossibile.

In Italia si è dimostrato che si può e si deve fare a meno dell’Ospedale Psichiatrico e di qualunque luogo segregante e umiliante. Che la condizione di sofferenza mentale è una questione che ci riguarda. Che riguarda la società intera e tutti abbiamo il dovere e la responsabilità di creare possibilità e speranza. Guarire dalla malattia mentale è un diritto sancito anche dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.  Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali. La Convenzione ha lo scopo di promuovere, proteggere, assicurare il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e promuovere il rispetto della loro dignità.  La Convenzione stabilisce inoltre il diritto a non essere sottoposto a torture, pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Gli Stati devono assicurare attraverso misure legislative, amministrative, sociali, educative e di qualunque altra natura, il rispetto della Convenzione.

Questo è un ulteriore strumento che le nostre Associazioni utilizzeranno per tutelare i propri familiari e tutte le persone a cui verrà negato il diritto ad un percorso di guarigione, quella possibile.

Nella libertà, nel rispetto, nella comprensione, nelle opportunità, che ognuno potrà e dovrà ricevere.

Non conosco la realtà del vostro bellissimo Paese, ma sono certa che i familiari giapponesi come i familiari italiani vogliono il meglio per i loro cari.

Noi siamo fortemente determinati e questa nostra forza ci permette di andare avanti anche nelle situazioni difficili, perché non siamo più soli.

Grazie.

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