La guerra di religione che si è accesa a proposito della legge 180 (o, più esattamente, degli articoli 33 e seguenti della legge 833/78, in cui i contenuti della legge 180 sono stati incorporati) solo in minima parte è espressione di difficoltà e contrasti interni al mondo della tutela della salute mentale; in larga misura, invece, essa è il prodotto di conflitti e contrapposizioni ideologiche che a quel mondo sono estranei.
Al di là degli schieramenti politici ed ideologici, noi riteniamo che la legge 180 (833) non sia un oggetto appropriato per una guerra di religione. Questa legge, infatti, pur essendo nata in un momento politico particolare e pur essendo stata generata in misura significativa da un movimento politicamente connotato, ha una valenza sul piano tecnico e socioculturale ed una visibilità a livello internazionale che il mondo politico di oggi non può ignorare.
La 180 (833) è una legge-quadro che fissa alcuni principi generali, di cui i più significativi sono: -# il superamento degli ospedali psichiatrici;
- l’integrazione dell’assistenza psichiatrica nel servizio sanitario nazionale;
- l’orientamento prevalentemente territoriale dell’assistenza psichiatrica;
- la limitazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ad alcune situazioni ben precisate.
Si tratta di principi largamente condivisi dagli operatori della salute mentale e, ci sentiamo di affermare, dagli utenti e dalle loro famiglie. Anche il superamento degli ospedali psichiatrici, che per anni è parso a molti impossibile, è oggi una realtà che tutti considerano irreversibile. Inoltre, non si può negare che, grazie alla legge 180 (833), la maggior parte degli italiani abbia imparato ad avere nei confronti delle patologie mentali un rispetto e una tolleranza maggiori che in passato.
La legge 180 (833) delegava alle regioni il compito di individuare le strutture per la tutela della salute mentale, e l’inadempienza di diverse regioni ha creato per molti anni una situazione di incertezza e confusione. Tuttavia, nel 1994 e nel 1999, due progetti-obiettivo emanati con decreto del Presidente della Repubblica hanno definito in maniera chiara ed articolata come la tutela della salute mentale debba svolgersi, quali siano le strutture in cui i dipartimenti di salute mentale debbono articolarsi, quante debbano essere queste strutture e quanti utenti esse debbano accogliere. Le strutture previste da questi progetti-obiettivo sono state però realizzate solo in parte, gli organici dei dipartimenti di salute mentale rimangono gravemente carenti e il disagio delle famiglie delle persone con patologie mentali gravi è assai serio in molte regioni del Paese.
Tra i presidi elencati dai progetti-obiettivo ci sono anche le strutture residenziali, destinate a far fronte ai “bisogni di lungo-assistenza” delle persone con patologie mentali gravi. Sono previste strutture residenziali a vari livelli di protezione, per situazioni di diversa gravità. E’ prevista la partecipazione del privato sociale ed imprenditoriale alla gestione di queste strutture. Il numero massimo dei posti in ognuna di queste strutture è fissato in 20.
Le proposte di legge attualmente all’esame del Parlamento mettono in discussione tre aspetti principali dell’attuale organizzazione dell’assistenza psichiatrica: 1) il numero e le caratteristiche delle strutture residenziali; 2) il ruolo rispettivo del pubblico e del privato nell’assistenza psichiatrica; 3) i luoghi e le modalità di attuazione del trattamento sanitario obbligatorio. Si tratta di problemi che, a nostro parere, è legittimo sollevare. Tuttavia, noi non crediamo che il modo in cui essi sono affrontati nelle proposte in questione sia il più appropriato.
Le strutture residenziali vanno sicuramente meglio regolamentate. Sono necessari criteri per l’accreditamento di queste strutture, sia pubbliche che private, che riguardino non solo gli spazi, i posti e il numero degli operatori, ma anche le attività che in esse debbono svolgersi. Già oggi purtroppo in alcune di queste strutture si ritrovano realtà simili a quelle dei vecchi manicomi, per la concentrazione dei pazienti, la spersonalizzazione, l’incuria e l’abbandono. Aumentare il numero dei posti in ciascuna di queste strutture fino a 50 ed accentuarne la natura custodialistica a spese della connotazione socio-riabilitativa non farebbe altro che aumentare il rischio della riproduzione di realtà manicomiali.
Il coinvolgimento del privato sociale ed imprenditoriale nell’assistenza psichiatrica va sicuramente incentivato, ma non è proponibile che il privato possa gestire tutte le strutture di ricovero di un dipartimento di salute mentale.
Si può regolamentare in maniera più precisa il trattamento sanitario obbligatorio extra-ospedaliero, che la legge 180 (833) non esclude, ma le procedure previste dalle due proposte di legge appaiono confuse e contraddittorie, né sembra proponibile che il trattamento sanitario obbligatorio sia richiesto “da chiunque ne abbia interesse”.
Il progetto-obiettivo emanato nel 1999 è scaduto il 31 dicembre 2000 e vige attualmente solo “in prorogatio”. La Società Italiana di Psichiatria non intende farsi coinvolgere in guerre di religione ed è pronta a collaborare – con tutto il suo patrimonio scientifico, culturale e di esperienze operative – alla stesura di un nuovo progetto-obiettivo o di un testo legislativo che integri la legge 180 (833) senza stravolgerne i principi.